Quando ci si interroga sul “Conosci te stesso” è facile cedere all’introspezione: quel guardarsi dentro autoreferenziale, strabico, capace di rivelare solo in parte la verità. E’ un ambito già ampiamente scandagliato dalle psicoterapie, ma persino certa scienza oggi riconosce che la coscienza non è tutta dentro di noi. Sempre che di "dentro" si possa parlare.
Dovremmo invece conciliare le apparenti diversità che ci si presentano a contatto con il mondo. Per riconoscermi devo guardarmi allo specchio. Ho bisogno di trovarmi negli altri e nelle cose. Non di qualcuno che mi aiuti a mettere insieme e interpretare i pezzi, gli eventi del passato, i comportamenti, bensì di azioni, rapporti che possano costituire la mia stessa identità, la possano integrare di nuovi elementi in armonia con quelli che già ci sono.
Occorre sacrificare l’io psicologicamente inteso in favore di un io allargato: la mia individualità non finisce con quello che per convenzione chiamo “me stesso” e credo di dover delimitare rispetto al resto del mondo. Io sono determinato innanzitutto da una rete di relazioni, quindi contemporaneamente soggetto e oggetto. Se questa presa di coscienza significa trascendere il sé, allora il ragionare filosofico dialettico permette di raggiungere questa trascendenza.
Il motto del tempio di Delfi non perde affatto di significato: ne acquista uno nuovo, specie se considerato nella sua interezza: “Uomo, conosci te stesso e conoscerai l’Universo e gli dei”. Anche se, per calzare meglio con quanto ho detto prima, andrebbe ribaltato: “Uomo, conosci l’Universo e conoscerai te stesso”.
Non è facile ESSERE filosofi e mettere in pratica questi propositi. Per ora ho capito solo che, per conoscersi meglio, occorre guardarsi fuori.
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